Recensione: “La lingua che cambia” di Manuela Manera

Accedere al catalogo delle biblioteche, andare in biblioteca… erano mesi o forse anni che evitavo di farlo, conscia del rischio che corro di perdermi in liste di lettura in costante espansione.
Questa volta, mi ero detta, vado mirata: voglio soltanto due libri, li prendo ed esco. Sono tornata a casa con quattro libri e La lingua che cambia era tra i fuoriprogramma.
Sono grata a me stessa per non essere stata in grado di resistere alla tentazione, grata a Manera per aver scritto un pamphlet fondamentale e alla casa editrice Eris che con BookBlock permette di avere strumenti semplici ed efficaci per approfondire e capire la realtà.

Titolo: La lingua che cambia. Rappresentare le identità di genere, creare gli immaginari, aprire lo spazio linguistico
Autorə: Manuela Manera
Prima edizione: Eris Edizioni - ottobre 2021
Pagine: 64
Prezzo: cartaceo - € 6,00

Ci sono due motivi per i quali temo di fallire l’obiettivo di commentare La lingua che cambia: il primo è la brevità del testo; il secondo è che avrei trascritto ogni parola del saggio di Manera.
Quindi, potresti fermarti qui e dedicarti direttamente alla lettura del libro: io lo considero già un caposaldo di certo interesse per chiunque voglia comprendere perché le scelte linguistiche possano veicolare discriminazioni, come cambiare abitudini linguistiche e adottare un linguaggio aperto ed esteso.
Come chiarisce il lungo sottotitolo, Rappresentare le identità di genere, creare gli immaginari, aprire lo spazio linguistico, il tema portante è il rapporto tra lingua e genere, ma le riflessioni proposte portano l’attenzione anche sul potere costruttivo, e per contro distruttivo, della parola.

Non si tratta di analizzare la lingua e scriverci un trattato, ma di agire in modo consapevole nelle comunicazioni senza dare per scontata la nostra competenza, la quale non si eredita, non è congenita e non è data una volta per tutte.

Punto di partenza della trattazione di Manera è l’analisi delle asimmetrie semantiche che intercorrono tra uomo e donna e che veicolano discriminazioni difficili da individuare perché pervasive e culturali (piangi come una femminuccia, è proprio un maschiaccio, è una donna con le palle, circolo dei lettori), determinano il rigido incasellamento in universi maschili e femminili e appaiono come una sovversione inaccettabile di regole grammaticali quando si indicano professioni declinandole al femminile.
Così l’avvocata, la notaia, la sindaca, l’arbitra, la gestrice possono suscitare titubanza nell’uso, eppure seguono le stesse regole di formazione di contadina, commessa, maestra, cuoca. L’esitazione è dovuta semplicemente al fatto che alcune professioni, un tempo, erano esclusivo appannaggio degli uomini.
Ovviamente declinare al femminile le professioni non è più importante che renderle accessibili anche alle donne, ma determina un’espansione dell’immaginario collettivo. Ci potenzia.
Una spiegazione efficace può essere un indovinello che ho da poco letto in Femminili Singolari di Vera Gheno, ma conoscevo in precedenza e sono certa conoscerai anche tu.

Padre e figlio fanno un incidente in auto. Il padre muore, il figlio viene portato d’urgenza in ospedale in gravissime condizioni. Il chirurgo quando lo vede, però, esclama: «Non posso operarlo. È mio figlio!» Com’è possibile?

So che sai la soluzione, ma dimmi: non hai avuto un piccolo cortocircuito nel trovarla? Perché leggendo “chirurgO” hai inevitabilmente immaginato un uomo.
Questo dovrebbe essere sufficiente per capire per quale motivo abbiamo bisogno di chirurga. Sono la prima che non se ne rendeva conto e che si è lamentata della cacofonia di certe parole, ma vogliamo parlare di meccatronica e spinterogeno?
Questa premessa è fondamentale per arrivare alla questione successiva: l’uso del maschile con valore neutro e universale. Peccato che il maschile non sia neutro e abbia come primo valore referenziale il genere maschile.
Un esempio. Se io, che sono una donna cisessuale, propongo di andare tuttE assieme al cinema, sarà chiaro che mi sto rivolgendo alle persone che si identificano nel genere femminile; se lo propongo a tutti, probabilmente nessuno si sentirà escluso.
Ma se fosse un collega, uomo cisessuale, a dire: «Ci andiamo tuttI assieme?», alle donne presenti verrà il dubbio che si stia rivolgendo esclusivamente agli altri uomini.
Le parole possono escludere, discriminare, costruire immaginari ed espandere le possibilità. Si tratta di scelte.
Manera sottolinea che l’italiano non è un sistema linguistico sessista, non è discriminatorio, ma il suo uso può esserlo. E ci ricorda che le lingue non sono sistemi rigidi, pena la loro estinzione: la lingua si trasforma in relazione all’emergere di necessità comunicative. Pertanto, è possibile declinare al femminile parole che fino a poco tempo fa usavamo solo al maschile, introdurre neologismi e infine introdurre strategie per superare il binarismo di genere ed ampliare la rappresentazione delle soggettività.
Nessuna persona dovrebbe rinunciare alla propria identità perché per agire linguisticamente deve assumere il ruolo di un soggetto maschile o, tutt’al più, femminile.

Siamo costantemente sotto l’influenza pressante e giudicante di modelli e indicazioni che, lungi dall’assicurarci la felicità come invece fanno intendere, ci disegnano intorno gabbie asfissianti e limitano di fatto la nostra libertà di scelta. Il punto non è eliminare Cenerentola o Superman perché le loro storie e i loro modelli sono superati e stereotipizzanti; si tratta, al contrario, aggiungere storie, moltiplicare le interpretazioni, le varianti, le possibilità, le ibridazioni.

La lingua che cambia è un saggio breve, ma denso. Manera scrive con chiarezza ed efficacia; costruisce un discorso che, procedendo gradualmente, arriva alle questioni più complesse e dibattute.
Leggere La lingua che cambia può chiarire perché le parole non devono essere considerate un mero strumento di comunicazione, perché parlare significa agire e perché le nostre scelte linguistiche definiscono chi siamo e la società in cui vogliamo vivere.

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