Recensione: "Accabadora" di Michela Murgia

Lo scorso anno, forse proprio in questo periodo, guardai L’Accabadora, film di Enrico Pau che in comune con il romanzo di Murgia ha la presenza della figura che alle due opere dà il titolo e la Sardegna. Cambiano i tempi, gli eventi e le relazioni: il film si sviluppa durante la Seconda guerra mondiale, il romanzo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Eppure, non ho potuto evitare di recuperare nella memoria alcune scene cinematografiche perché il ruolo dell’accabadora è lo stesso, immutabile nel tempo, o forse perché è la Sardegna a sembrare immutabile e immutata, con quel legame a tradizioni che sembrano scritte come un codice genetico e quell’essere isola e mondo a sé che la geografia preserva e impone.

copertina accabadora murgia

«Non mi si è mai aperto il ventre,» proseguì, «e Dio sa se lo avrei voluto, ma ho imparato da sola che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il seno, e il vino della festa, e tutto quello che serve, quando gli serve. Anch’io avevo la mia parte da fare, e l’ho fatta».
«E quale parte era?»
«L’ultima. Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto».

Titolo: Accabadora
Autore: Michela Murgia
Prima edizione: Einaudi - ottobre 2010
Pagine: 164
Prezzo: copertina rigida - € 18,00; copertina flessibile - € 12,00; ebook - € 7,99
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Maria era nata due volte. Per la sua prima madre, Anna Teresa Listru, era una bocca in più (e di troppo) da sfamare, una creatura che richiedeva attenzioni. Per Bonaria Urrai sarebbe stata fill’e anima.
A quella figlia Bonaria Urrai aveva aperto le porte e le aveva insegnato a non confinarsi, a riconoscere che quella casa era anche sua ed era libera di prendere un bottone o una mandorla perché, semplicemente, le apparteneva.
Diventando fill’e anima della sarta di Soreni, Maria aveva smesso di essere «la quarta» o «l’ultima». Tzia Bonaria l’aveva Le aveva insegnato così a non nascondersi e a essere umile, ma non sottomessa. E l’aveva spinta a impegnarsi a scuola perché la sua intelligenza trovasse nutrimento e avesse più mezzi per affrontare la vita. Eppure, nonostante non avesse mai chiuso una stanza a chiave, Bonaria aveva un segreto che avrebbe voluto rivelare alla fill’e anima, ma aspettava e rimandava.
sottratta a quella classifica estraniante: in un certo senso le aveva restituito un nome e dato un’identità.
Tutti a Soreni sapevano che Bonaria Urrai era un’abile sarta, ma non era solo per i vestiti che bussavano alla sua porta. Bonaria era accabadora e in quanto tale agevolava il trapasso di coloro che, in fin di vita, soffrivano. Non se n’era mai vergognata: aveva imparato presto quanto fosse giusto e dignitoso, ma a Maria non sapeva spiegarlo.

Romanzo breve e interamente al femminile, Accabadora è costruito su episodi efficacemente legati tra loro.
Adagiandosi fuori dal tempo per evocare una realtà piccola e chiusa, la narrazione trova un ritmo proprio. La partenza è, in effetti, un po’ lenta e avviene quasi in sordina, concentrandosi sulla nascita della relazione familiare tra Bonaria e la piccola Maria.
Murgia si sofferma, senza peccare di pedanteria, sulle voci perplesse e morbosamente curiose dei compaesani. Al lettore la possibilità di cogliere il peso del giudizio che aleggia ancora oggi su quei figli che sono desiderati e scelti.
La crescita di Maria si accompagna a un diverso scorrere delle stagioni che, probabilmente non a caso, l’autrice descrive in relazione alla maturazione dell’uva nelle vigne. In questa parte del romanzo gli eventi che concorrono a turbare l’armonia tra Bonaria e la fill’e anima appaiono come leggere increspature nello scorrere lineare della storia fino a toccare uno iato, che si insinua come parentesi necessaria nella vita delle protagoniste.
Se da un lato la narrazione dà spazio alla trasformazione del rapporto tra Maria e la Tzia, attraverso cesure che si leggono come cambio di prospettiva e segnano l’ingresso nell’età adulta della prima, dall’altro il compito dell’accabadora rimane il perno centrale della storia.
L’accabadora è una figura storicamente incerta, ma che nelle narrazioni apre lo spazio a riflessioni attuali, mai semplici e finite intorno alla morte dolce e dignitosa, all’eutanasia. L’intento dell’autrice, che inserisce due episodi significativi e complessi, sembra proprio voler essere quello di lasciare cadere la questione.
Con uno stile piano, ma fortemente evocativo e poetico in alcune descrizioni, Murgia lascia molti silenzi accanto a frasi e dialoghi incisivi. In particolare, è l’aspetto psicologico a dover essere colto nel non detto, nell’atmosfera e nelle ombre che scivolano lungo i muri delle case.
Ho molto amato il sapore, la luce e la polvere che si respira nelle pagine della Sardegna evocata dall’autrice ma, forse complice la brevità del romanzo, il finale mi ha lasciato una sensazione di sospensione. Al contrario di quanto si è soliti affermare, penso che non mi sarebbe dispiaciuto se avesse avuto qualche pagina in più.

«Non metterti a dare nomi alle cose che non conosci, Maria Listru. Farai tante scelte nella vita che non ti piacerà fare e le farai anche tu perché vanno fatte, come tutti».

Il mio voto

3 specchi e mezzo


Amaranth

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